Paesaggi di polvere e fango, di cretti sbiancati, di zolle aggrumate. Terre calcinate leggere come talco, terre pallide che sanno di sale, terre scure carnose e rosse di argilla pastosa. Marco Pili dipinge reticoli di campi distesi in un’interminabile pianura, stende le sue terre sulle tele come fossero lava pompeiana, la patina calcificata della memoria.
Impiega sostanze antiche, la cera delle api, il grano delle spighe, la sfoglia fragile del pane tradizionale. E il sangue di bue e il panno nero del lutto e il morbido velluto, mescola i tessuti alle vernici, le fibre vegetali alle colle, i pigmenti alle sabbie. Sperimenta ogni materiale in cui s’imbatte, traducendo in composizioni pittoriche le reazioni e gli scontri di insolite convivenze.
Sui suoi quadri deposita terre di tutti i colori, quella chiarissima trovata ai bordi dello stagno, quella grassa nutrita dall’ombra, quella argillosa dell’ocra raschiata in colline segrete. Percorre il Sinis in lunghe camminate, captando come un rabdomante striature interessanti, vene di terricci disposti a divenire preda dei pennelli o delle spatole o di qualsiasi inedito strumento egli possa escogitare. Come un cercatore d’oro, individua i giacimenti di sostanze da far sedimentare, trattare, depurare, le prende in prestito alla natura – lo dice piano – per restituirle sotto forma d’arte.
Ad interrompere le geometriche armonie di Marco Pili, è la fiamma di una piccola diabolica lingua di fuoco che spunta dappertutto, anche sotto macchie che sembrano licheni, tra le trame di muffe grigiastre e tenaci. Irrompono la yuta dei sacchi e la gomma da pneumatico in rettangoli bruciacchiati da rogo vero, affiorano reti servite a raccogliere le olive, in brandelli che si sono appiccicati al suolo come una seconda pelle. Sul rosso degli incendi, sul nero del catrame, Marco Pili orchestra variazioni cromatiche che vanno da intensi contrasti al dosarsi di un bianco gessoso che intacca il color rosa crudo dei mattoni antichi. Distese inaridite ma fertili nel cuore, luoghi inabitati dove si intuisce la fatica del lavoro, il gesto dei contadini, l’arte di piantare semi e di intrecciare cesti.
Cacciatore di impronte, assaggiatore di zolle, poeta dei campi, Marco Pili. Autore di georgiche contemporanee, di tattili visioni illuminate da astri di strana origine, per esempio il fondo di un setaccio splendente come un sole. Magari al tramonto, acceso dal rosso cupo del sangue di bue in stesure sezionate da giunchi sottili che seguono linee irregolari come se marcassero una pietraia, un dosso, un ciuffo di canne su una polla nascosta. Rosso animale e caldo che somiglia al cuoio di selle e finimenti, o alla ruggine viva delle querce da sughero orbate della corteccia.
Alessandra Menesini
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