“PAESAGGI CON ANIMA” Marco Pili

Dal diario intimo di Henri Frèdèric Amien, scrittore e filosofo della seconda metà dell’Ottocento. Fa venire in mente che un paesaggio può condizionare il nostro stato d’animo. Che un paesaggio può essere la proiezione del nostro stato d’animo. Che un paesaggio può essere la rappresentazione dello stato intimo di un dio, della terra stessa,o del cosmo.

Marco Pili è un artista poco propenso a parlare e tanto meno a fare filosofia. La ricerca, sia interiore che tecnica, preferisce consumarla nel privato del suo studio e dei pensieri. In modo scientifico e cocciuto, faticando, sperimentando, affinando. A chi guarda le sue opere presenta il risultato del suo lavoro e risparmia i contorcimenti su temi e linguaggi, chè quella è cosa sua.
Così capita che uno come me gli parli della sua terra, il Sinis, dei paesaggi,delle terre e dei colori,vuotando un sacco confuso di sensazioni di fronte alla cordialità apertissima del suo quasi silenzio, che punteggia con qualche affermazione tirata giù veloce come un chiodo ben piantato. E dopo quasi un anno, come riprendendo un discorso interrotto un minuto prima, Pili è in grado di annunciare che a quel proposito ha sviluppato qualche idea.
Un ciclo intero di opere.
Che anno un passo nuovo rispetto alle sue precedenti esperienze. Nuovo e sempre riconoscibile, perché Pili è pittore dall’identità marcata e matura.

Un paesaggio può condizionare il nostro stato d’animo. Su questo, Pili fa leva con due obiettivi: farci sentire a pelle la forza che la terra sardissima del Sinis sprigiona e tenerci in tensione con un “allarme cemento”. Colori, terre, giornali, si incontrano sulle tele come se fossero elementi mobili di un caleidoscopio. Scorrono gli uni sugli altri, si urtano e si sovrappongono e ogni volta generano un’immagine chiarissima e suggestiva, occhieggiante. Vedi il mare, la terra, la sabbia, gli alberi, le rocce, il vento perfino; e ogni elemento ha evidenza e forza come solo hanno le immagini trasfigurate dalla fantasia e dal sentimento. E fanno capolino piccinerie umane in forma di case e villette. Stanno lì come la marachella di un bambino; stanno lì e non dovrebbero. Si intrufolano in un paesaggio che non le prevede e non le vorrebbe; se ne appropriano, indebitamente orgogliose.
Non hanno l’aria minacciosa, ma sono una minaccia incombente, proprio per l’inconsapevolezza con cui spuntano. Sono il segno di un’umanizzazione che non ha progetto. Sono mattoni posati senza pensare se non al piccolo vantaggio personale e proprio per questo spaventano. Non capiscono la terra su cui poggiano e vogliono ridurla a un paesaggio privato, a un affaccio borghesoccio.
Le terre, le sabbie che Pili usa, i colori intensi, hanno vibrazioni profonde, che restituiscono il carattere della primordialità del Sinis. A volte, sotto queste velature sono inseriti ritagli di giornale, che si intravedono come una trama delicata. Sembrano riferirsi a quella trama che la vita dell’uomo ordisce nel suo quotidiano affannarsi e che rimane sul fondo, rispetto all’energia della natura. A guardare queste opere, esattamente come accade al cospetto sincero del paesaggio, si capisce come sia improprio e riduttivo definire habitat questo nostro mondo. Come se davvero tutto esistesse solo per consentire alla nostra specie di vivere e riprodursi. Non si può ridurre la potenza del mare e della terra ad una scenografia ben costruita per fare da sfondo alle nostre messe in scena. E sembra un delitto spendere una vita senza aver dato ascolto alla loquacità di questo luogo, questa palla girevole sul quale siamo apparsi.

Un paesaggio può essere la proiezione del nostro stato d’animo. E Pili non manca di far sentire la sua voce, innestando nel sistema muscolare e nervoso di queste vedute, la personale sofferenza per un mondo contaminato e a rischio. A rischio di essere dimenticato, forse più ancora che d’essere distrutto.
Il rosso, allora, si vena di cupezza e di nostalgia; il blu si fa elettrico di paure, o si slava sotto la commozione; il nero incombe, come una minaccia di annientamento.

Conosco Marco Pili da molti anni. Lo so armato di un’onestà specchiata. Tanto che non potrebbe mai attribuire questi sentimenti, nei suoi quadri, a un dio, o alla terra.
Pili ama il Sinis con un amore forte e chiaro. Che gli consente di ritrarlo con adesione profonda, con tutte le tracce che gli uomini lasciano sulla sua superficie. Quelli che lo calpestano da bagnanti, da viaggiatori distratti, da abitanti inconsapevoli, o da amanti appassionati e rispettosi. Com’è questo piccolo, coriaceo, straordinario pittore.

Michele Palazzetti
(Direttore artistico Gruppo Stelle dell’Orsa)

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